WORKSHOP TRA ISTITUZIONI, ONG, IMPRESE, ISTITUTI DI CREDITO, MEDIA
Promosso da Link 2007, Farnesina, Roma, 19 Ottobre 2016
Intervento a nome di Link 2007
Il piano europeo per gli investimenti esteri era stato delineato nella Comunicazione della Commissione europea (CE) del 7 giugno 2016 “Stabilire un nuovo quadro di partenariato con i Paesi Terzi nell’ambito dell’Agenda europea sulle migrazioni” [COM(2016)385]. Pochi giorni dopo (28 giugno), il Consiglio dei capi di Stato e di Governo ha chiesto che fosse in merito presentata una “proposta ambiziosa” entro settembre 2016. La CE ha di conseguenza reso pubbliche, il 14 settembre, due nuove Comunicazioni [COM(2016) 581 e COM(2016) 586] una di impostazione del nuovo Piano di investimenti esteri e l’altra di proposta di un atto legislativo: “Regolamento sul Fondo Europeo per lo Sviluppo Sostenibile (EFSD) e l’istituzione della relativa Garanzia e del relativo Fondo di Garanzia”. Tale proposta è ora al vaglio della Presidenza e delle altre istituzioni europee: il Parlamento (PE), il Consiglio, il Comitato economico e sociale (CESE), il Comitato delle regioni (CdR), la Banca europea degli investimenti (BEI).
Trattandosi di una novità nella concezione della cooperazione internazionale per lo sviluppo, che coincide con la valorizzazione dei soggetti profit, accanto a quelli non profit e quelli istituzionali, della recente legge italiana, abbiamo promosso questo workshop da un lato per far conoscere, approfondire e valutare questo nuovo Piano di investimenti in una prospettiva di sistema, l’unica a nostro avviso che può produrre risultati veri e che la legge auspica, e dall’altro per raccogliere idee e suggerimenti migliorativi da presentare alle istituzioni europee competenti con le opportune pressioni per un loro accoglimento. La proposta di regolamento entra infatti nel dettaglio definendo chi fa che cosa, modalità attuative, condizioni e controlli.
Le Ong della rete Link 2007, con l’esperienza accumulata in decenni di cooperazione allo sviluppo, hanno espresso alcune valutazioni critiche su questo “nuovo partenariato” con i Paesi terzi, proposto dalla CE lo scorso giugno, finalizzato a politiche e azioni volte prevalentemente al contenimento dell’immigrazione, al contrasto al traffico di esseri umani, al controllo, alla sicurezza, oltre che alla salvezza e protezione dei migranti e ai fattori che causano le migrazioni. E abbiamo avanzato proposte per garantire una maggiore coerenza con le politiche europee di cooperazione allo sviluppo e di vicinato in cui i partenariati e il Piano di investimenti si inseriscono (Link 2007. “I nuovi partenariati europei in tema di migrazioni: opportunità o mutazione genetica?” [1]).
Condivido brevemente alcune delle nostre valutazioni e proposte alla luce delle due Comunicazioni del 14 settembre.
1. La CE ricorda come nel mondo siano più di 60 milioni le persone emigrate in cerca di una vita migliore; che il Nord Africa e il Medio Oriente ne stanno accogliendo il 40% e l’Africa sub sahariana un altro 30%. Si tratta di regioni con paesi colpiti da problemi economici e sociali, disoccupazione, crescita demografica, aggravati dalle tensioni politiche e militari degli ultimi anni: tutte condizioni che favoriscono le migrazioni. Viene quindi proposto un “ambizioso Piano di investimenti esteri” che “affronti i fattori che costituiscono le principali cause della migrazione e quelli che pesano particolarmente sui paesi di transito”. La connessione tra i problemi dello sviluppo e le migrazioni è indubbia (Link 2007 ha pubblicato un’analisi in merito: Migrazioni e Cooperazione internazionale per lo sviluppo. Analisi e spunti di riflessione, 2014)[2] ma l’approccio europeo sembra non tener sufficientemente conto della nuova mobilità internazionale correlata alla globalizzazione e della molteplicità e complessità dei fattori che provocano in modo crescente le migrazioni odierne. È inoltre provato che, in un paese povero, un maggiore sviluppo (quindi maggiore istruzione e maggiore capacità di iniziativa e di spesa) tende a favorire la migrazione, almeno fino a quando lo sviluppo non sia percepito tale da soddisfare le aspettative personali e familiari.
2. Nonostante questa semplificazione nell’approccio al fenomeno migratorio, il Piano si focalizza su un’interessante e in parte nuova dimensione dello sviluppo: quella che vede il protagonismo imprenditoriale, la voglia di fare impresa, di intraprendere, di investire mettendoci del proprio, nella consapevolezza di poter rispondere ad un bisogno vero e rischiando per poterci riuscire. E’ questo spirito imprenditoriale che l’UE sollecita per creare sviluppo, per moltiplicare le occasioni di lavoro e le professionalità necessarie in molteplici settori in Africa e nei vicini paesi del Mediterraneo e Vicino Oriente. E intende mettere a disposizione strumenti finanziari, garanzie sovrane, assistenza tecnica e accompagnamento per sostenerlo, orientando a questo preciso scopo risorse finanziarie già destinate alla cooperazione allo sviluppo e alle politiche di vicinato. Risorse che fra quattro anni potrebbero anche quadruplicare di fronte ad un auspicabile successo del primo quadriennio. Ci poniamo seriamente, però, la domanda se non ci sia il rischio di una mutazione genetica: le politiche di cooperazione allo sviluppo e quelle di vicinato diventano subalterne alle politiche migratorie e finanziario-economiche dell’UE? Il rischio è reale ma è attenuato dalla parallela decisione di mantenere nelle due DG “Sviluppo” e “Vicinato” la governance del Piano e del relativo Fondo e di non affidarla alla BEI come è per il Piano di investimenti interni ai paesi UE (Piano Junker). La BEI opererà, in modo integrato, come strumento consultivo e operativo di alta specializzazione e come indispensabile catalizzatore per l’ampliamento degli investimenti e delle risorse necessarie, ma non dovrà intervenire nella governance di un simile programma che ha una dimensione politico-diplomatica e di partenariato molto rilevante. La cosa non è ancora del tutto scontata e dovremo prestare la massima attenzione perché la logica bancario-finanziaria non abbia il sopravvento su quella della cooperazione e del vicinato. Se ciò accadesse, sarebbe semplicemente il fallimento dell’iniziativa, che supera di gran lunga la dimensione finanziaria degli investimenti.
3. Il Fondo (EFSD), con i suoi 3,35 miliardi di euro, comprese le garanzie a copertura dei rischi di 750 milioni a cui si dovrebbero aggiungere altrettante garanzie da parte degli Stati Membri portando il Fondo a 4,05 miliardi per i prossimi quattro anni (2017-2020), non è certo sufficiente a realizzare quel “piano Marshall” da più parti considerato vitale per buona parte del continente africano. Si tratta di una somma corrispondente a poco più del 5% dei fondi complessivi per Cooperazione allo sviluppo, ACP e Vicinato. Rappresenta comunque un significativo ammontare, soprattutto per l’effetto leva capace di attrarre e attivare prestiti e altre forme di investimento pubblico e privato, nazionale o internazionale, con un indice moltiplicatore di 11 volte (valutazione della Corte dei conti europea) pari quindi a nuovi investimenti per 44 miliardi di euro.
4. Ampi sono i settori di intervento: infrastrutture, energia, acqua, trasporti, tecnologie dell’informazione e comunicazione, ambiente, infrastrutture sociali, istruzione e formazione, agricoltura, rivalutazione delle terre incolte, rimboschimento, attenzione agli ecosistemi (la dimensione agricola e boschiva e gli ecosistemi non ci sembrano valorizzati adeguatamente nella proposta di Regolamento), accesso delle micro, piccole e medie imprese ai finanziamenti, puntando sulla creazione di occupazione con attenzione ai giovani e alle donne. In ogni programma settoriale primaria attenzione dovrà essere data alla lotta alla povertà e alle disuguaglianze sociali, allo sviluppo sostenibile e inclusivo, alla stabilità del lavoro dignitoso.
5. Per quanto riguarda l’Italia, c’è un rilevante spazio per la Cassa Depositi e Prestiti, l’istituzione nazionale per la promozione degli investimenti a cui la Legge 125/2014 affida la gestione degli strumenti finanziari della cooperazione internazionale per lo sviluppo. Essa potrà utilizzare a pieno titolo il blending comunitario per integrare la propria capacità di promozione degli investimenti nei paesi africani e mediterranei prioritari per l’Italia. Ma è auspicato un rilevante spazio anche per gli altri Istituti di Credito, nelle loro diverse dimensioni e finalità. Il sistema della Cooperazione italiana dovrà procedere in modo speculare a quello europeo. Le linee strategiche e la governance delle iniziative italiane inserite nel piano europeo dovranno fare capo all’Agenzia e alla Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo sotto la direzione politica e strategica del Viceministro per la cooperazione allo sviluppo o del Ministro. La struttura dell’EFSD si compone infatti di: a) un Consiglio strategico (Strategic Board) che è presieduto dai rappresentanti della CE (presumibilmente le DG Sviluppo e Vicinato) e dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri ed è composto dagli Stati membri e dalla BEI e b) due Comitati di gestione (Operational Boards), uno per ogni Piattaforma regionale.
6. Pur essendo implicito nel concetto di partenariato, dal testo della comunicazione non risulta chiaro il grado di partecipazione dei paesi partner alla governance dei piani di investimento. Saranno certamente seguiti i principi e le regole già in atto nelle politiche di cooperazione allo sviluppo e di vicinato, che non possono essere messe in discussione, ma questo punto andrebbe meglio specificato e precisato. Nel Board strategico sarebbe anche di grade utilità la presenza, come osservatori, di esponenti qualificati della società civile a maggiore garanzia della corretta finalizzazione ed efficacia degli investimenti.
7. La Commissione prevede di impegnare un’adeguata disponibilità di fondi per l’assistenza tecnica di cui gli investitori avranno bisogno, al fine di migliorare nei paesi partner le condizioni per lo sviluppo delle attività imprenditoriali e la creazione di occupazione, attrarre investimenti, identificare le opportunità, sostenere il settore privato nelle sue articolazioni (rappresentanze, in particolare delle PMI, delle imprese femminili, del settore informale, camere di commercio, partner sociali) e rafforzare il dialogo pubblico-privato.
8. Il miglioramento della governance economica e del contesto imprenditoriale sarà attuato attraverso il rafforzamento del dialogo politico tra l’UE e i paesi partner sulle politiche economiche e sociali al fine di sviluppare, con i necessari strumenti formativi, un quadro di riferimento legale, politiche e istituzioni più efficaci e di promuovere stabilità economica e crescita inclusiva. Da un migliore contesto imprenditoriale favorevole agli investimenti nei paesi partner trarrebbero beneficio sia il settore privato locale che le imprese europee che intendono investire. Il miglioramento del contesto imprenditoriale per permetterne la piena dinamicità impone anche che siano esplicitate regole e linee guida per gli investitori internazionali e che se ne verifichi l’attuazione. Occorre evitare gli errori del passato. Anche nelle imprese si è andata formando un’attenta sensibilità alla sostenibilità, alla responsabilità sociale, ai diritti, al bene comune, ritenuti ormai una componente essenziale del business. Il Piano europeo di investimenti esteri dovrebbe quindi adottare, senza riserve, le Linee guida OCSE per gli investimenti internazionali[3]: oltre ad essere vincolanti per gli Stati che le hanno firmate, tra cui l’Italia e molti altri Stati membri, la loro adozione negli investimenti nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo si impone al fine della coerenza con le sue finalità e con l’Agenda 2030 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile. Lo auspichiamo per la stessa Cooperazione italiana e chiediamo con forza all’Agenzia Italiana e alla Direzione Generale di farsene carico, proponendole e facendole adottare con delibera del Comitato Congiunto. Uno dei problemi chiave è quello della corruzione (che non esiste solo nei Paesi terzi) concepita spesso come elemento strutturale dello ‘sviluppo’ economico. Su questo punto sarà necessario non arrendersi e mettere in atto, oltre alla formazione, una maggiore e più severa e efficace vigilanza istituzionale e della società civile.
Il settore non profit, a partire dalle Ong di sviluppo e dalle organizzazioni delle diaspore, dovrà essere coinvolto per accompagnare, grazie all’esperienza acquisita e alle conoscenze, il sistema profit nel rispetto dei requisiti di sostenibilità sociale e ambientale, dei diritti umani e del lavoro, delle aspirazioni delle comunità e nel rispondere pienamente alle esigenze dei paesi partner.
In chiusura, cinque punti riassuntivi:
a) Si tratta, per tutti i soggetti pubblici e privati, profit e non profit, di capire e vivere la dimensione della cooperazione per lo sviluppo, del partenariato per uno sviluppo reciproco, che non guardi solo all’immediato ma che sappia proiettarsi nel futuro.
b) Il business e il profitto – che devono esserci, trattandosi di impresa – devono sapersi intrecciare con le finalità dello sviluppo, umano, sostenibile, duraturo.
c) Rimanendo coscienti che questa dello sviluppo imprenditoriale e della creazione di occupazione dignitosa e stabile è una parte fondamentale, ma non l’unica. Non c’è infatti sviluppo senza educazione, senza possibilità di curarsi, senza coesione sociale, senza sostenibilità ambientale, senza giustizia sociale e economica.
d) Ecco perché noi Ong crediamo profondamente che solo facendo sistema possiamo garantire in paesi così complessi, risultati positivi ed efficaci:
– noi Ong che conosciamo i territori e le comunità, anche quelle dell’ultimo miglio, e che siamo per vocazione sensibili alla centralità della persona umana, delle comunità con le quali abbiamo stabilito profonde relazioni;
– le imprese che intendono fare profitto investendo in nuovo sviluppo, con un approccio etico (nel rispetto della persona umana e dell’ambiente), con partenariati stabili, in aree poco conosciute e talvolta a rischio imprenditoriale, incentivate dai fondi europei, nazionali e internazionali;
– le istituzioni nelle loro articolazioni nazionali, regionali e territoriali;
– i media, data l’importanza della corretta comunicazione su tematiche che possono avere notevole sviluppo grazie all’approccio che guarda sì al business ma con occhi nuovi, che puntano alla sostenibilità, al rispetto e al coinvolgimento delle comunità, alle questioni ambientali, ai diritti umani e del lavoro.
e) Occorre che, in modo univoco e senza ambiguità, si punti allo sviluppo piuttosto che all’ “affare” indipendentemente dagli obiettivi di sviluppo durevole, come è stato anche nell’ambito della cooperazione italiana, in particolare negli anni Ottanta (con disponibilità di fondi pari allo 0,4% del Pil). Tale approccio, oltre a portare all’inevitabile crisi dell’APS, ha dimostrato di non lasciare nulla, né all’impresa italiana, né al paese in cui si è intervenuti. I tempi sono cambiati e molte imprese oggi sono decisamente e in modo esemplare sulla linea della sostenibilità, vivendo profondamente la propria etica imprenditoriale. Ci sono, a nostro avviso, le condizioni per avere un approccio di sistema, ognuno con la propria specificità ma in una visone di insieme.
[1] https://www.link2007.org/press/link-2007-sui-compact-migratori-europei/
[2] Sul tema, un’analisi di Link 2007 (2014): http://www.link2007.org/assets/files/documenti/LINK2007Intersos-IMMIGRAZIONECOOPERAZIONEINTERNAZIONALE.pdf
[3] https://www.oecd.org/daf/inv/mne/MNEguidelinesITALIANO.pdf
RACCOMANDAZIONI
Raccomandazioni (Italiano):
http://www.link2007.org/wp-content/uploads/2016/11/Raccomandazioni-workshop-19.10.pdf
Recommandations (English):
http://www.link2007.org/wp-content/uploads/2016/11/The-European-Investment-Plan.-Recommendations.pdf