NOTA DELLA RETE DI ONG “LINK 2007”, 18 luglio 2017.
Uno sguardo alle contraddizioni mondiali, ad alcuni fattori che provocano le migrazioni, ai dati che parlano da soli e alla realtà italiana ed europea per cercare di dare un significato accettabile e comprensibile alla proposta di “aiutarli a casa loro”, attenti al negoziato sul Migration Compact delle Nazioni Unite che nel 2018 indicherà percorsi comuni.
Slogan con differenti significati. Di fronte al crescente flusso di immigrati, da tempo si è diffuso il pensiero che sarebbe giusto e utile “aiutarli a casa loro”. C’è chi lo sostiene a fini politici, anche per togliersi dall’imbarazzo di non saper dare altre risposte e per scrollarsi di dosso le responsabilità, chi in modo strumentale e xenofobo per cercare facili consensi, chi per senso solidaristico e di umanità, auspicando che possa essere assicurata a tutti una vita dignitosa senza dovere emigrare. Quanto segue riprende alcune riflessioni delle Ong della rete ‘LINK 2007’ (sintetizzate nel documento Migrazioni e cooperazione internazionale per lo sviluppo, 2014) che da anni stanno approfondendo il tema per tradurlo in priorità di azione. Nel 2009, dopo la seconda conferenza nazionale sull’immigrazione, una delle Ong delle rete prese l’iniziativa di scrivere una lettera all’allora segretario federale della Lega Nord, Umberto Bossi, invitandolo a prendere sul serio, con coerenti provvedimenti, la proposta da lui lanciata di “aiutarli a casa loro”. La lettera non ha mai avuto risposta né si è mai visto alcun atto che trasformasse la propaganda leghista, seguita presto da altri partiti, in una coerente ed efficace proposta attuativa. Di slogan si trattava allora e di slogan continua sostanzialmente a trattarsi.
Vivere e prosperare a casa propria. Si tratta comunque di una proposta che, tolte le connotazioni di strumentalizzazione politica e di velata xenofobia che talvolta l’accompagnano, corrisponde al basilare principio che ogni persona dovrebbe poter vivere e prosperare a casa propria, senza essere costretta a cercare altrove la garanzia della sopravvivenza per sé e la propria famiglia in assenza di alternative all’estrema povertà. Occorre però approfondire la questione, per capirla nelle sue dimensioni reali e per individuare quali scelte politiche occorra adottare e quali decisioni e modalità devono accompagnarle.
Migrazioni Sud-Nord e Sud-Sud. Nel mondo vi sono 244 milioni di migranti (2015), pari a circa il 3% della popolazione mondiale. I paesi del cosiddetto Nord hanno accolto negli anni circa la metà di tutti i migranti. Le migrazioni Sud-Nord si sono sviluppate particolarmente verso i paesi politicamente o economicamente ‘coloniali’ o alla ricerca di protezione in fuga da guerre, persecuzioni, siccità, disastri naturali o anche per tentare la fortuna ovunque possibile, nella speranza di migliorare la propria condizione, attratte anche dai bisogni di manodopera di economie in crescita. Esse sono diminuite negli ultimi anni a causa della crisi, parallelamente ad una progressione di quelle Sud-Sud. Queste ultime sono ormai maggioritarie e, per quanto riguarda i rifugiati, 9 su 10 sono accolti nei paesi del cosiddetto Sud del mondo.
Mobilità internazionale. Con la globalizzazione si è ampliata la mobilità internazionale delle persone, come ovvia conseguenza dell’istruzione, delle conoscenze e della mobilità globale delle merci, dell’economia e della finanza. E’ favorita dal desiderio delle nuove generazioni di muoversi, aprirsi al mondo, conoscere altre realtà, vivere esperienze nuove, cercare nuove opportunità per sé e i famigliari, dare nuovo senso al lavoro e alla vita. Nell’insieme si tratta di cambiamenti epocali, a cui non siamo preparati e su cui la politica continua a rimanere cieca o superficiale, in particolare in Italia dove gli slogan abbondano senza mai definire politiche migratorie e di sviluppo lungimiranti e complessive, limitandosi ad affrontare come emergenze fenomeni da tempo strutturali.
Gravi e crescenti disuguaglianze. Il mondo contemporaneo è caratterizzato da estreme e crescenti disuguaglianze, che si manifestano, con sempre maggiore ampiezza, tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno di entrambi. È vero che ci sono stati significativi miglioramenti sulla salute, l’istruzione, lo sviluppo economico ma è la forbice delle disparità tra ricchi e poveri che cresce ovunque, anche nei paesi industrializzati, con pochi ricchi sempre più ricchi e con classi medie che si stanno impoverendo avvicinandosi agli strati delle società che già vivono esclusioni sociali e gravi vulnerabilità. Più di un terzo della popolazione mondiale, almeno 2,5 miliardi di persone, vivono tra la povertà e la miseria, mentre l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza del restante 99% in condizioni che perpetuano e aggravano tale rivoltante disuguaglianza. Domina un capitalismo ipertrofico, clientelare, chiuso nei propri privilegi, distruttivo, insensibile alle esigenze di giustizia, venditore di falsi bisogni in contrasto con le esigenze di una economia umana indirizzata all’interesse collettivo.
Fuga da guerre, persecuzioni, siccità. Le calamità causate dai cambiamenti climatici, siccità e inondazioni in particolare, stanno colpendo circa 350 milioni di persone costrette spesso all’abbandono definitivo delle proprie terre (più di 20 milioni, con una previsione al 2050 di 200-250 milioni). Altre 60 milioni di persone, spesso interi nuclei familiari, sono in fuga da guerre, repressioni, persecuzioni, alla ricerca di protezione all’interno del proprio paese (36,6 milioni) o altrove (17,2 milioni i rifugiati, 2,8 milioni i richiedenti asilo e altri non ancora registrati).
Il 2% del PIL mondiale per uscire dalla povertà. Sono solo alcuni dati, che quantificano situazioni di forte squilibrio che spingono all’emigrazione e che, al tempo stesso ci interrogano. Sono infatti situazioni che dimostrano disuguaglianze e vulnerabilità strutturali che possono diventare esplosive anche perché sarebbe possibile adottare politiche e iniziative in grado di ridurle, sia rafforzando la prevenzione, il dialogo politico, il multilateralismo, sia modificando i sistemi che regolano l’economia e la finanza globale, sia intervenendo sulle povertà più estreme. Secondo l’Undp basterebbe il 2% del PIL mondiale, circa 1500 miliardi di euro, per assicurare una protezione sociale di base ai poveri del mondo intero.
Il fattore demografico. L’invecchiamento della popolazione e il calo demografico in Europa produrranno in tre decenni una carenza di alcune decine di milioni di persone (lavoratori, produttori e contribuenti fiscali e previdenziali). Nello stesso periodo il resto del mondo continuerà a crescere, passando dai 7,5 miliardi ai 9,8 nel 2050. La sola popolazione dell’Africa raddoppierà gli attuali 1,2 miliardi di persone. La Nigeria sarà il terzo paese più popoloso al mondo con 440 milioni, superando gli Stati Uniti (ora 320 milioni). Africani saranno i dieci più giovani Stati del mondo, con età media intorno ai 20 anni (contro i 43 UE), determinando nel continente un bacino di circa 700 milioni di persone in età lavorativa tra i 14 e i 65 anni, in paesi in cui permangono gravi disuguaglianze e ampie sacche di povertà in cui si vive con poco più di 1 euro al giorno. L’Africa deve quindi offrire nuove opportunità di lavoro in modo diffuso. Se non riuscisse, la migrazione di decine, forse centinaia di milioni di persone verso le grandi città o verso paesi africani economicamente più forti o verso altri continenti, a partire dalla vicina Europa, sarà inevitabile.
I molteplici fattori dell’emigrazione. I dati ci mostrano che nei paesi di immigrazione le comunità provenienti dalle zone più povere del mondo sono sottorappresentate. Anche in Italia, le più ampie presenze (2015) provengono da Romania (1,15 milioni), Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Moldavia, Bangladesh, Egitto, Perù, Sri Lanka, Pakistan (tra 400 e 100 mila, a scalare), mentre dai paesi più poveri le provenienze sono molto limitate. Poche miglia infatti i cittadini del Sudan, Sud Sudan, Repubblica centrafricana, Congo, Ciad, Niger, Guinea. Mali, Burkina Faso, nonostante le condizioni nettamente peggiori rispetto ai primi. Per emigrare alcune condizioni sono normalmente necessarie ed in particolare: essere consapevoli di volerlo e poterlo fare ed avere l’intraprendenza e i mezzi necessari per riuscirci. Emigra chi può permetterselo, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze, salute e istruzione o di legami con persone che già l’hanno preceduto. Ad emigrare non sono principalmente, quindi, le popolazioni delle aree di ‘povertà assoluta’, bensì quelle dei paesi a medio tasso di sviluppo e a ‘povertà relativa’ rispetto ai paesi industrializzati. I dati relativi all’Ue e ai paesi Ocse riproducono lo stesso schema. Anche le gravi crisi umanitarie quali siccità, carestie, inondazioni, provocano sfollamenti soprattutto all’interno dello stesso paese o, transitoriamente, nei paesi limitrofi, lasciando a minoranze più predisposte e intraprendenti la scelta migratoria più radicale.
Migrazioni e cooperazione allo sviluppo. Paradossalmente, nel caso in cui la cooperazione raggiungesse i propri obiettivi contribuendo a creare sviluppo nei paesi più poveri, è molto probabile una parallela crescita dell’emigrazione, almeno nel breve-medio periodo. L’uscita dall’estrema povertà e l’acquisizione di maggiore benessere economico e culturale favoriscono, infatti, le condizioni per potere immaginare, desiderare e realizzare l’emigrazione. Questo risultato evidenzia ancora una volta la complessità del rapporto tra gestione delle migrazioni internazionali e politiche di cooperazione allo sviluppo. Se dall’analisi dell’impatto della povertà sulle migrazioni si passa a verificare gli effetti benefici dell’emigrazione sulla povertà, la Banca Mondiale stima che un aumento del 10% nell’ampiezza della diaspora nei paesi di accoglienza determina un calo dell’1,9% nel numero di persone che vivono con meno di 1,5 dollari al giorno, per effetto dell’attenuazione del peso sociale ed economico della disoccupazione, che trova sbocchi nell’emigrazione, e dei flussi di rimesse finanziarie degli immigrati verso i propri paesi di provenienza, circa 500 miliardi di dollari, più del doppio di tutti gli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo (Ocse-Dac). Dall’Italia, 5 miliardi, dieci volte più delle risorse bilaterali per la cooperazione. Un dato impressionante e non adeguatamente valorizzato.
Una relazione complessa. Le migrazioni possono avere anche ricadute negative sui processi di sviluppo, in particolare a causa del brain drain, ‘perdita dei cervelli’, cioè dell’emigrazione di capacità e professionalità che sarebbero indispensabili per lo sviluppo. Paesi come il Ghana hanno perso il 60% dei medici formati nei decenni scorsi, con evidenti ricadute sulla qualità e sostenibilità del proprio sistema sanitario. O come la Somalia e l’Eritrea che, a causa dei conflitti interni o dell’oppressione, hanno visto fuggire medici, docenti, professionisti, amministratori pubblici. Ma si può trattare anche di “perdita di braccia” dovute all’abbandono delle campagne, dell’agricoltura, della cura dei suoli con conseguenti dannosi impatti ambientali. Nei paesi in conflitto, poi, le rimesse possono essere talvolta legate al rischio di esacerbare e prolungare gli scontri nelle aree d’origine sostenendo finanziariamente l’una o l’altra fazione; ma possono anche rappresentare un reale sostegno umanitario alle persone rimaste ‘intrappolate’ senza potere trovare vie di fuga. Il rapporto tra povertà, migrazioni e cooperazione allo sviluppo è estremamente complesso e richiede valutazioni specifiche caso per caso.
La complessità non va banalizzata. Quindi, pensare di poter applicare paradigmi semplicistici (“aiutarli a casa loro”, per l’appunto) indirizzando la cooperazione allo sviluppo al contenimento dei flussi migratori, oltre ad essere inefficace, rischia di sviare l’attenzione che richiede invece approfondite analisi e strategie di sviluppo impegnative, coordinate a livello europeo e internazionale, sostenibili, con partenariati efficaci, di lunga durata e ad interesse e vantaggio reciproci, puntando su leadership credibili e stabili, coinvolgendo le comunità, combattendo ogni forma di corruzione, creando occupazione diffusa e dignitosa. Le risorse da impegnare dovranno essere ingenti. Per essere tali e per non correre il rischio della dispersione, dovranno rappresentare un vero e proprio investimento per il futuro dell’Africa e dell’Europa. Non solo ‘aiuto’ allo sviluppo ma ‘cooperazione’ (così come la legge 125/2014 ha giustamente definito). Per un tale investimento saranno indispensabili forti partenariati, ampi e non limitati alle sole élite, attente valutazioni, definite programmazioni, severità nella gestione, trasparenza e verifiche, partecipazione dei territori e delle comunità, coerenza delle politiche in ambedue i continenti.
La cooperazione internazionale al centro. Aiuti e cooperazione allo sviluppo, quindi, in un più ampio quadro di cooperazione politica, economica, culturale, di sicurezza, associando la dimensione bilaterale e quella comunitaria; apertura dei mercati e trattati commerciali basati su rapporti equi, politicamente coerenti e reciprocamente vantaggiosi; infrastrutturazione sociale ed economica; integrazioni regionali. Occorre cioè decidere, senza ulteriori ritardi, di mettere la cooperazione internazionale al centro delle politiche dei prossimi decenni, a partire dalla cooperazione allo sviluppo, dandole dignità politica, dotandola di risorse e strutture funzionali ed operative, indirizzandola politicamente con visioni globali e di ampio respiro e un’azione coordinata dell’Europa. Una svolta politica a 180 gradi, ma necessaria. Sperando anche che il negoziato all’Onu per un Migration Compact globale porti all’assunzione di linee di azione e impegni condivisi da parte di tutti.
Anche su Repubblica.it e Vita.it
“LINK 2007 – COOPERAZIONE IN RETE” è formata dalle Ong: CCM, CESVI, CIAI, CISP, COOPI, COSV, ELIS, MEDICI CON L’AFRICA CUAMM, GVC, ICU, INTERSOS, LVIA, WORLD FRIENDS (presidenza@link2007.org – www.link2007.org)