L’INAZIONE CHE UCCIDE LA PALESTINA

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Written by Nino Sergi

26 Agosto 2025

Mai avrei pensato che di fronte a massacri, fame inflitta, occupazioni illegittime, arresti arbitrari, deportazioni forzate, apartheid e disprezzo per gli esseri umani — crimini di guerra e contro l’umanità — potessero diffondersi indulgenza, talvolta persino giustificazione. Mentre a Gaza si sono superate le 60.000 vittime (80% civili), si soffoca la libera informazione, si eliminano giornalisti e si offre spazio a buffoni e influencer pagati per mentire, il dibattito scivola altrove, lontano dal crimine che si consuma contro i civili e dal disprezzo per istituzioni e regole internazionali.

Eppure è accaduto: non solo tra persone con cui ho condiviso battaglie per la libertà e i diritti contro dittature e oppressioni, ma anche tra amici giornalisti da sempre attenti ai diritti umani, alla condanna dei sistemi di apartheid e alla necessità di regole internazionali condivise. Tutto in buona fede, ma non per questo meno sconcertante, quasi surreale.

Si arriva a riconoscere che il governo Netanyahu, con i suoi ministri fanatici, è il peggiore mai avuto da Israele e che ciò che accade ai civili di Gaza sia aberrante e finisce per far passare in secondo piano la liberazione degli ostaggi. Ma troppo spesso si evita di guardare in faccia i crimini che Israele sta compiendo a Gaza e in Cisgiordania: uccisioni indiscriminate, distruzioni, aiuti bloccati, sfollamenti forzati, vite ridotte alla disperazione. Di fronte a una catastrofe umanitaria occorre agire subito: ogni altra questione, pur importante, diventa secondaria e finisce per rinviare gli interventi necessari. Invece il dibattito scivola su questioni collaterali: dai dati sulle morti civili alla malnutrizione dei bambini, dalla “vera” origine della carestia agli “scudi umani”, dall’adeguatezza del termine genocidio alla militanza o correttezza istituzionale di Francesca Albanese e delle sue fonti, dalla legittimità dell’Onu e delle sue Agenzie alle manifestazioni della società civile, all’esclusione di attori e artisti, fino all’accusa di antisemitismo rivolta a chi critica Israele. Temi anche rilevanti, ma che finiscono per spostare lo sguardo lontano dal vero nodo: il massacro in corso e il disegno di annientamento dei palestinesi.

Da mesi assistiamo a uno dei più gravi crimini “accettati” dalla comunità internazionale: una violenza che ha superato ogni principio di proporzionalità ed è ormai criminalità deliberata e continuativa. La società civile in tutto il mondo ha reagito con imponenti manifestazioni, mentre gli Stati si sono limitati a dichiarazioni di principio. Emblematico il documento del 21 luglio 2025 firmato da 30 ministri degli Esteri, Italia compresa: appelli alla protezione dei civili e al rispetto del diritto internazionale umanitario, alla revoca delle restrizioni sugli aiuti, alla possibilità per le organizzazioni umanitarie di operare in sicurezza, al blocco degli insediamenti. Parole condivisibili, ma rimaste tali: nessuna decisione su sanzioni economiche e finanziarie, embargo sulle armi, sospensione di accordi militari e politici, sostegno alla Corte penale internazionale o altro. Sanzioni proposte ora da 209 ex ambasciatori europei ed ex alti funzionari dell’UE. L’impotenza delle democrazie occidentali lascia campo libero al più brutale esercizio della forza.

L’orrore del 7 ottobre ha indignato il mondo, portando alla definitiva condanna di Hamas e del Jihad islamico e a una profonda vicinanza a Israele, cui è stata riconosciuta la legittima reazione. Ma quella reazione è diventata una vendetta generalizzata, volta ad annientare i palestinesi di Gaza, colpendo anche bambini, donne, anziani, scuole, ospedali e chiese, negando cibo e aiuti e sostituendo le organizzazioni umanitarie indipendenti con strutture sotto controllo militare e impedendo ogni reale informazione. Questa nuova operazione militare su Gaza City, devastante per un popolo già stremato e inutile sul piano politico, segna uno spartiacque: dalla stagione seguita alla seconda guerra mondiale, con il tentativo di regolare la convivenza internazionale,  si scivola verso una nuova era segnata dal ritorno a logiche di potenza e mire coloniali. Esemplare la testimonianza dei Patriarchi cristiani Pizzaballa e Teofilo III che rifiutano, con il personale religioso, di muoversi: “Lasciare Gaza e cercare di fuggire verso sud sarebbe una condanna a morte” e “non può esserci futuro basato sulla prigionia, sullo sfollamento dei palestinesi o sulla vendetta”.

Con una logica di annientamento, Israele ha compromesso la propria credibilità internazionale, che potrà recuperare solo cambiando rotta: garantendo ai palestinesi una terra sicura e riconosciuta. Due popoli, due Stati: unica via di salvezza per entrambi.

L’esistenza di Israele da tempo non è in discussione: è uno Stato consolidato che ha ampliato il proprio controllo ben oltre i confini riconosciuti, spesso con metodi disumani. L’evocazione continua di una minaccia esistenziale è servita a giustificare crimini di guerra e contro l’umanità, e lo stesso 7 ottobre, pur tragicamente e profondamente presente nella coscienza israeliana, è diventato pretesto di una violenza senza fine.
Molti siamo stati vicini a Israele, legati anche dall’affetto per il popolo ebraico, la sua storia, le sue sofferenze e la necessità di affermare la propria esistenza in sicurezza, sia nella diaspora sia nella propria terra nazionale. Lo siamo ancora oggi, pur vedendolo guidato da governanti pronti a qualsiasi crimine, fanatici che usano i testi sacri per fare proseliti, superando perfino i fanatismi religiosi già conosciuti e combattuti.
Ma la Palestina va difesa integralmente: ai palestinesi va riconosciuto il diritto a una terra sicura e a uno Stato, come sancito da decisioni internazionali. Riconoscerlo è urgente: non è un gesto inutile, è anzi indispensabile, proprio perché l’aggressività crescente di Israele lo rende tale. Senza uno Stato palestinese, anche Israele rischia un futuro senza pace.

L’imminente Assemblea Generale dell’ONU, con gli interventi dei Capi di Stato e di Governo, è l’occasione per fare propria la “Dichiarazione di New York” del 30 luglio 2025, che chiede la fine del conflitto sulla base della soluzione dei due Stati. Francia, Regno Unito e Canada hanno già annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina come passo verso la pace: un atto politico e simbolico di enorme rilievo, che auspichiamo l’Italia non eluda. Nella stessa direzione va la petizione di 70 ex ambasciatori al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che continua a raccogliere firme in vista della definizione della posizione italiana all’Assemblea.

Pubblicato, con adattamenti, anche su:  Vita non profitCorriere.it

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