La cooperazione riveste un ruolo primario nella politica italiana in Africa: qual è la situazione attuale e quali le prospettive per il futuro.
Mio contributo al Dossier ISPI “ Diplomazia, sicurezza, sviluppo: come si muove l’Italia in Africa”, a cura di Giovanni Carbone e Lucia Ragazzi.
L’Africa subsahariana ha sempre goduto in Italia di particolare attenzione nelle attività di cooperazione allo sviluppo, grazie anche ai legami costruiti nel tempo da missionari, volontari, organizzazioni della società civile (Osc) e al sostegno ai movimenti di liberazione. Tra la ventina di paesi considerati prioritari nelle programmazioni triennali della Cooperazione italiana, le tre grandi aree Corno d’Africa, Sahel, Africa australe sono state sempre presenti. In particolare, per il triennio 2021-2023 l’attenzione è focalizzata su Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Niger, Burkina Faso, Mali, Senegal, Mozambico.
Con la nuova legge approvata nel 2014, la cooperazione allo sviluppo è esplicitamente riconosciuta come “parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia” e si colloca nella più ampia e complessiva politica di cooperazione bilaterale e multilaterale, fondamento delle relazioni internazionali del nostro paese e strumento indispensabile per condividere soluzioni ai crescenti problemi globali.
L’Africa è parte del nostro futuro, italiano ed europeo
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha confermato la priorità strategica del continente africano per il suo esecutivo, annunciando un Piano Mattei per l’Africa a dimensione italiana e europea “ispirato a un modello di cooperazione non predatorio”. Interesse a sua volta ripreso dal ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, che ha riconosciuto che “l’avvenire strategico dell’Italia e della stessa Europa si svolge attraverso questo continente” e che occorre “guardare all’Africa attraverso una prospettiva africana”.
Esiste indubbiamente un forte interesse italiano ed europeo nella collaborazione con i paesi africani, in particolare nella differenziazione delle fonti di approvvigionamento energetico – dagli idrocarburi al gas, alle rinnovabili – nel processo di transizione energetica, che vede nella cooperazione con l’Africa un reciproco vantaggio, italiano-europeo e africano. Oltre 600 milioni di africani vivono infatti senza accesso all’elettricità, gran parte dei quali nella regione subsahariana. Il reperimento di fonti energetiche pulite e economiche è una priorità. Se sostenuto da un’intelligente e coerente cooperazione internazionale, potrebbe riuscire a garantire l’accesso universale ai servizi energetici in Africa già entro il 2030.
Ma il comune interesse può e deve essere ben più ampio. Basti ricordare che, secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2050 la popolazione subsahariana sarà cresciuta di oltre 900 milioni e raggiungerà i 2,1 miliardi (altri 200 milioni di abitanti accresceranno le popolazioni dell’Africa mediterranea) con un’età media intorno ai 20 anni; mentre, nello stesso periodo, l’Italia vivrà un declino demografico con un presumibile calo di 7 milioni di abitanti, un rilevante aumento degli ultraottantenni e una conseguente riduzione della ricchezza nazionale. Le politiche per sostenere la maternità sono indispensabili, ma serviranno decenni per ripristinare l’equilibrio nati-morti. Saranno quindi necessarie centinaia di migliaia di lavoratori, molti dei quali arriveranno dall’Africa attraverso accordi bilaterali e ingressi regolari programmati. Dall’altro lato, la crescita demografica africana reclamerà una corrispondente creazione di posti di lavoro dignitosi nel continente stesso, realizzabile attraverso la risposta, pubblica e del settore privato, ai nuovi bisogni di infrastrutture, alloggi, mobilità, produzione, formazione e cura che l’Africa potrà coprire, anche con il supporto dell’Italia e dell’Europa, nel suo plausibile cammino di nuova rivoluzione industriale, trasformativa in senso ecologico dei sistemi sociali e produttivi. Perseguendo così la visionaria Agenda 2063 dell’Unione Africana e l’affermazione del made in Africa.
Insomma, l’Africa ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno dell’Africa. In quest’ottica, la creazione di un solido partenariato euro-africano è vitale e dovrà avere orizzonti ambiziosi e adeguate risorse. Nella cooperazione tra i due continenti l’Italia potrà avere un ruolo preminente, anche in virtù della sua collocazione geografica.
La cooperazione allo sviluppo “made in Italy”
Nell’Africa subsahariana la cooperazione con l’Italia è tendenzialmente ben vista, frutto anche di buone relazioni diplomatiche, di un made in Italy considerato di alta qualità, di africani formatisi in università italiane che sono poi divenuti nei propri paesi ministri, governatori, imprenditori, docenti, e di immigrati operosi nelle nostre regioni che hanno saputo costruire ponti di dialogo e affari con le aree di provenienza. Da parte sua, il made in Italy formato solidarietà ha mostrato la resilienza delle Osc italiane radicate nelle comunità fino alle aree più lontane e bisognose.
A quasi 45 anni dalla prima legge organica italiana (l. 38/1979), il bilancio della cooperazione allo sviluppo è un insieme di luci e ombre, successi e insuccessi, continuità e discontinuità, aperture politiche e chiusure. Sono mancate attente valutazioni e programmazioni proiettate oltre il triennio o la singola legislatura. Sta inoltre venendo meno la memoria della sua evoluzione complessiva. La riforma legislativa del 2014 ha inteso rilanciarla nel nuovo contesto internazionale, introducendo (27 anni dopo la precedente l. 49/1987) elementi innovativi, maggiore unitarietà e coerenza delle politiche, semplificazione amministrativa-procedurale per rendere il tutto funzionale al rafforzamento dei partenariati, all’appropriata ed efficace esecuzione delle iniziative, al raggiungimento di risultati durevoli. Nove anni non sono però bastati per la piena attuazione della legge e per generare, anche grazie alla nuova Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS), il plusvalore voluto dalla riforma.
Gli stanziamenti e le reali attività
Decine di migliaia di progetti sono stati realizzati negli anni, anche di alta qualità, con validi partenariati tra Italia e paesi subsahariani a livello di stati ma anche di realtà territoriali, università e Osc. Molto è stato fatto, nonostante le risorse finanziarie siano rimaste sempre molto inferiori all’impegno internazionale assunto dello 0,7% del Reddito Nazionale Lordo (RNL). Si sarebbe potuto fare meglio e con maggiore efficacia se fosse stato incoraggiato un approccio di sistema (il tanto evocato sistema Paese) tra istituzioni pubbliche, settore privato, società civile, accademia e diaspore; se fossero state immesse nuove capacità e professionalità nelle strutture istituzionali competenti; se fosse stata garantita la necessaria continuità alle iniziative; se non ci fossero stati inutili appesantimenti burocratico-procedurali, funzionali più all’autotutela istituzionale che non agli interventi operativi.
Non è facile trovare dati ufficiali aggiornati. Le programmazioni triennali e le relazioni consuntive annuali sono rese pubbliche, ma l’ultima relazione si riferisce al 2019, una grave lacuna che il CICS, Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo, deve colmare. Inoltre, i dati sono ormai concordemente “gonfiati” dai paesi OCSE per fare apparire come aiuto pubblico allo sviluppo (APS) qualsiasi spesa che abbia qualche attinenza coi paesi in sviluppo, come i costi per l’accoglienza dei richiedenti asilo nel paese “donatore”, anche quando gestita senza alcuna prospettiva di sviluppo e al limite dell’umano.
Per fornire un’idea concreta della cooperazione dell’Italia con i paesi dell’Africa subsahariana possono essere utili i dati dell’Agenzia pubblicati nel proprio sito OpenAid, di seguito sintetizzati. I fondi utilizzati nel 2022 dall’AICS per le iniziative a dono realizzate con i paesi subsahariani si riferiscono ai principali settori di intervento: emergenze, salute, istruzione, governance, formazione, agricoltura, sviluppo rurale, acqua e igiene, alimentazione, ambiente, società civile, pesca, infrastrutture, servizi, comunicazioni, trasporti, costruzioni, industria, sostegno al bilancio, riduzione del debito, e sono schematizzabili nella seguente tabella (milioni di euro).
Gli altri paesi subsahariani con attività finanziate nel 2022 dall’Agenzia sono stati (milioni di euro):
Le risorse utilizzate dall’Agenzia nei paesi a nord del Sahara nel 2022 sono state pari a 38,833 milioni di euro (Egitto 7,578; Libia 15,227; Tunisia 12,906; Algeria 2,500; Marocco 0,622).
Fare meglio e di più
Occorre evidenziare che altri programmi di cooperazione allo sviluppo in Africa sono attuati dall’Italia attraverso i canali europeo e multilaterale e talvolta con lo strumento del credito agevolato. Altri ancora, pur rientrando nei programmi di internazionalizzazione delle imprese, hanno caratteristiche di cooperazione allo sviluppo. La scelta di considerare prioritari una decina di paesi subsahariani e, più in generale, di vedere nel rapporto col continente africano anche un investimento sul nostro futuro, dovrebbe però comportare un corrispondente prioritario impegno politico e finanziario: questo impegno nei dati non si vede. Nonostante il “gonfiamento” delle cifre APS, nel 2022 l’Italia rimane, con erogazioni pari allo 0,32% del RNL, al 19esimo posto nella classifica OCSE, dopo ben 16 paesi europei, 12 dei quali erogano tra lo 0,50% e l’1% del proprio RNL.
I fondi utilizzati direttamente dall’Agenzia nel 2022 per le iniziative bilaterali e multilaterali a dono sono stati, nella realtà, complessivamente pari allo 0,015% del RNL. È un dato poco pubblicizzato perché imbarazzante per un paese G7 e G20 come l’Italia. Gli immigrati sostengono le proprie famiglie e i paesi d’origine con rimesse di denaro enormemente superiori agli stanziamenti governativi per lo sviluppo. Dall’Italia sono state infatti inviate nel 2022 rimesse pari a 8,2 miliardi di euro, che superano lo 0,42% del RNL del nostro paese; quelle inviate nell’Africa subsahariana sono state di euro 1,31 miliardi (dati Banca d’Italia).
Le buone intenzioni manifestate dal Governo dovranno dunque tradursi in programmazioni concrete, definite con coerenza e trasparenza, sostenute dalle migliori competenze e professionalità, e soprattutto dotate di risorse finanziarie reali, senza le quali obiettivi e dichiarazioni politiche rimangono visioni astratte.